«il rock'n'roll è esattamente come vi hanno detto i vostri genitori,
vi entra da un orecchio e vi esce dall'altro,
è spazzatura – oggi lo sentite dappertutto
e domani non ci sarà più, e allora?»
lester bangs

martedì 15 aprile 2008

Broken Heart Romance


Joy Division. Broken Heart RomanceMarco Di Marco
pp. 320 - € 18,50

In libreria dal: 28-03-2008











La pagina del sito di Arcana

martedì 7 agosto 2007

domino

Ti ricordi quel giorno in cui tuo padre, uscendo da casa, ti guardò nelle palle degli occhi e poggiandoti una mano sulla spalla disse “guagliò, mi raccomando, io e tua madre andiamo per due giorni dalla nonna, comportatevi bene” “posso invitare carmine a cena?” e lui “si, è solo una cenetta tra amici”. È solo una cenetta, dopo venti minuti casa tua era la curva sud durante Napoli-Verona, primal scream a palla e il più lucido vomitava appeso al lampadario di cristallo nella stanza off-limits e poi gli sbirri che sgombrano la “cenetta” cercando il padrone di casa e poi... Non volevi distruggere l’appartamento ma le cose ti sono leggermente sfuggite di mano. Sono tutte tessere di un domino gigante. Tu hai spinto la prima, o forse è stato tuo padre con quella sua frase -è solo una cenetta- buttata lì, senza darle il giusto peso. Questo è pressappoco quello che è successo alla musica, al rock’n’roll. Mi sbaglio o qualcuno una volta ha detto “it’s only rock’n’roll” . Mi sbaglio? No che non mi sbaglio, scazzo su un sacco di cose, la maggior parte delle quali importanti, ma sulle cazzate non sbaglio mai. Si, un po’ di tempo fa la rana dalla bocca larga, prese le distanze dagli artisti che di rock vivevano e morivano, e sputò fuori, giustamente, che tutto il merdoso circo è solo spettacolo, che non si può morire per la musica, che in fondo è “solo rock’n’roll”, ci può stare e “i like it”. Ma la cosa è finita con lo sfuggirci di mano, dopo trenta anni abbiamo lentamente trasformato un promettente e cazzuto ak-47 nell’orsetto fuffy, un giocattolo innocuo (eccezioni a parte), per poi, come dei mocciosi indemoniati, sfracassarlo al suolo strappandogli via le braccia e cavandogli gli occhi: rotto il giochino, abbiamo tirato avanti imperterriti a dare calci a un pallone sempre più sgonfio, non rotola ma arranca, non rimbalza, non spacca le finestre del vicino e non ti cambia la vita, ma patinato di glamour e con la cresta unta di MTV-gel è molto cool, vende un botto e fa un gran casino. Il rock urticante, di protesta, d’impegno sociale esiste ancora oggi, e non intendo il live earth sponsorizzato dalla mercedes e dalla coka, ma di quello ghettizzato in piccole nicchie di gente che ancora non ha del tutto ceduto al “distaccamento dal pensiero”, sopravvive educatamente senza scalciare, e sembrerà strano, ma lo fa grazie ai giganti della musica, alle major e alla tv, i quali non danno una mano all’uomo appeso penzoloni su un cornicione, ma neanche gli pestano le dita per vederlo col cervello di fuori sul marciapiede, a loro serve vivo e serve lì, dove si trova, per dare credibilità al carrozzone che non perde pezzi ed è più in forma che mai (benché rompano il cazzo loro e la pirateria). Accendi la tele e quando parte un servizio sulla nuova musica di protesta, se la sigla non è dei clash è di qualche loro cugino, mentre i contenuti sono due pirla vestiti da tupac che rimano su quanto la vita sia una merda su basi tutte uguali, cinque nerds che vogliono riabilitare la musica degli ottanta (da cosa poi?) senza trascurare il punk dei settanta, o le mille fotocopie well educated punk dei blink che già di loro di punk avranno al massimo uno zio. Musica nuova? Da qui giù non la riconosco più, sono tutte uguali. Distinguere gli uni dagli altri è praticamente impossibile. Sono tanti, troppi, sono anche fottutamente bravi, e la loro tecnica è seconda solo al loro fashion style. “ le haine” partiva con Burnin' and Lootin' di Marley, ed oggi pensare di tirare sassi ai cellerini al ritmo paraculo dei franz ferdinand o dei linkin park mi scoraggia. Di musica ce ne è tanta e anche bella e di questo sono convinto ma non è rock, è “solo rock’n’roll “

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 3

Quando dal ’77 agli inizi degli Ottanta – lasciando da parte il cancro della glam music dei capelloni impaillettati che iniziava a corroderci lo stomaco – tutti i giovani reietti volevano gridarci quanto fossimo privi di attributi, quanto ci nascondessimo dietro l’intoccabilità dell’aura rock, quando si inneggiava alla Rivolta Bianca, quando le manette non erano un problema, quando i Galli da Combattimento ci invitavano a guardarci le spalle perché la finta guerra che stavamo conducendo aveva nei giovani skin della working class britannica i nemici più audaci che ci avrebbero sorpreso a combattere per finte idee irrinuciabili, quando gli Sham 69 incitavano i ragazzi a restare uniti, forse solo allora, per un balenante attimo di reale pop-democrazia (o di quell’anarchia [sic] tanto desiderata e che sarebbe stata l’inizio e la fine di tutto), il punk ha rivelato che in fondo questo rock’n’roll – questa truffa, questa grande menzogna dove dirigere le nostre menti deviandole da tutte quelle che sarebbero dovute essere le nostre priorità vere – poteva farlo chiunque, in piena libertà, lontano dalle forzature mediatiche, dai giochetti da mercante in fiera di qualche discografico cocainomane e impotente, dalle convinzioni pseudoartistiche di qualche produttore frustrato. E un frammento di quello specchio, di quella scena che dalle periferie urbane rivendicava spazi all’interno delle mura delle città, rifletteva la luce anche nella nostra penisola, illuminando un manto maculato di realtà isolate ma dense di musica che più veloce non si può. Da Torino e Bologna a Bari, passando per il Virus di Milano, il Gran Ducato Hardcore della Toscana: fu una rapidissima scarica elettrica, con virate improvvise di tempi e accordi, partita dalla prima Negazione fino al Declino, quando la storia sociale tornava a imporre ingoi Indigesti, quando la provocazione dei Wretched si rendeva necessaria e sulla suburra romana svettava la bandiera Bloody Riot. Anche da noi ci fu chi pensò che la sopravvivenza di un vero circuito sotterraneo – dal pavimento di audiocassette casalinghe e vinili autoprodotti, dalle pareti rivestite di punkzine, dalle giornate spese nell’organizzazione di massacranti tour nella Germania ancora divisa, nella penisola scandinava (l’arrembaggio del punk all’Europa continentale), o nel tentativo di esportare il nostro hardcore oltreoceano – fosse possibile, come il lato incantato e seminascosto di una laguna artificiale dalle rive in cemento e fondali di eternit, sul sottofondo dei danzerecci cori di tutti i Kennedy Morti che intonano il più classico dei refrain: “Uccidi il povero!”.
Ma non durò più di un tiro di speed. E tutto il contorno di concerti finiti in rissa, di bottiglie spaccate su qualche testa fuori posto, di anfetamine assunte prima dell’arrivo della polizia, tutto il puro – innocente – piacere di scandalizzare qualcuno di noi borghesi troppo sensibile alla vista del tessuto nervoso, tutta l’essenza politica insita nell’autolesionismo che sfregiava i corpi magri e nudi (perché se è il nostro sangue che volete, lo avrete, ma siete disposti a pagare un prezzo così alto?), tutta la gratuità delle bestemmie e degli slogan senza futuro, tutta le urla fuori tono e fuori metro, tutta questa giostra primordiale e fai-da-te morì, vittima di se stessa e della propria rapidità incendiaria, nel frastuono atroce della metropoli, senza che il cadavere dell’enorme animale venisse mai più ritrovato. La rabbia ha poi ceduto il posto al compiacimento, al compatimento, alla posa di outsider sfigati e incompresi.